17. Sovvenzioni alla produzione o esternalizzazioni?

Nei capitoli precedenti abbiamo avuto modo di dimostrare che il sistema economico-produttivo adottato nelle nostre società non è in grado di creare quel potere d’acquisto che sarebbe necessario a conseguire integralmente i ricavi attesi. Per realizzare profitti le imprese tendono, pertanto, a diminuire i costi legati ai salari, non rendendosi pienamente conto del fatto che ciò che per un soggetto economico è il salario, costituisce per un altro il ricavo. Le imprese non sono, cioè, in grado di comprendere la dinamica del ciclo economico inteso nel suo complesso. Questo tipo di approccio ha un duplice impatto sulla struttura sociale:

  1. Le imprese riducono i salari al punto tale che i potenziali dipendenti non trovano più conveniente lavorare. Se essi accettassero, infatti, i bassi salari proposti, diventerebbero mendicanti a casa propria, perché con gli stipendi percepiti non sarebbero in grado di permettersi quei beni e quei servizi cui erano abituati in precedenza e di cui usufruiscono ampiamente i lavoratori che percepiscono uno stipendio nella media dei parametri nazionali.

Per sostituire la forza lavoro mancante (che nel frattempo è emigrata o è disoccupata), ci si vede costretti ad accogliere immigrati provenienti da Paesi più poveri: costoro non sono pienamente coscienti del fatto che se accettano un’offerta di impiego a prima vista allettante, si vincolano in realtà a un’esistenza di povertà e a una vita da cittadini di seconda categoria. Poiché provengono da condizioni di vita tanto peggiori, essi sono felici di avere la possibilità di lavorare in un Paese “civilizzato” e di ricevere un salario “fantastico”. La prima generazione è, in genere, molto soddisfatta dei risultati conseguiti. Possiamo definire questo processo un’esternalizzazione interna.

Gli immigrati, però, cominciano quasi subito a capire di essere in realtà solo cittadini di seconda categoria (in senso economico), cui è negata la fruizione dei beni di cui godono i comuni consumatori, per il semplice fatto che non se li possono permettere. Inizia così a crescere in loro un odio che ha le sue radici nell’esclusione e nella discriminazione.

La seconda generazione di immigrati è già pienamente conscia di vivere un destino di ingiustizia e comincia a incolpare di questo fatto una società che li ha resi dei moderni schiavi, i quali percepiscono, sì, un salario, ma a un livello tale da consentire loro la mera sopravvivenza. Questo gruppo sociale, poco e male integrato, spesso non parla la lingua della maggioranza della popolazione e non ha legami emotivi con il Paese in cui si è stabilito, con la sua cultura e le sue leggi. La situazione di questa fascia di popolazione non migliora, anche perché a causa della loro origine etnica gli stranieri sono spesso costretti ad accettare i lavori più sporchi, quelli che la popolazione locale rifiuta. Beh, è esattamente questa la ragione per cui il Paese in cui vivono ha inizialmente accolto loro (e i loro genitori), a prescindere dalle dichiarazioni politicamente corrette su diversità, uguaglianza e non discriminazione. 

Il numero dei lavoratori stranieri cresce ed essi continuano a vivere una condizione di esclusione. Si forma così una sorta di quinta colonna, che aumenta progressivamente di dimensioni a causa della crescita demografica, e che si trova spesso a commettere atti criminali e vandalici.

Queste riflessioni non vanno ascritte a posizioni razziste. Mi sono limitato a descrivere cosa succede quando le imprese devono conseguire profitti utilizzando la forza lavoro più a basso costo reperibile sul mercato. Si tratta di storie sempre uguali a se stesse, che riguardino l’Impero romano e le sue difficoltà a finanziare il proprio esercito (situazione che ha portato a un arruolamento sempre maggiore di stranieri, sino al suo crollo) o che concernano gli Stati Uniti e la loro importazione di schiavi dall’Africa o, ancora, alcuni Stati europei, come la Germania o la Francia, che utilizzano forza lavoro a basso costo proveniente dalla Turchia o dall’Africa settentrionale. 
Il principio è sempre lo stesso: la necessità di procurarsi manodopera a un prezzo cui non sarebbe possibile ottenerla in una società in cui vi siano prezzi e salari “normali”.

Nel Paese che abbiamo poco sopra descritto, e per le cause che abbiamo analizzato, si determina inoltre una pressione al ribasso sui salari, circostanza che causa sul lungo periodo un crollo complessivo del tenore di vita.

2. Poiché l’esistenza di gruppi di cittadini di seconda categoria all’interno di un Paese ha implicazioni spesso negative, esiste una seconda forma di esternalizzazione, la cosiddetta esternalizzazione esterna. Gli schiavi nel nostro giardinetto di casa non sono politicamente corretti, per cui appare opportuno sistemarli da qualche altra parte, dove non siano visibili.

E così migliaia di posti di lavoro poco qualificati vengono spostati in Cina, in India, in Bangladesh o in altri Paesi del Terzo mondo, dove centinaia di migliaia di schiavi di nuova generazione (o di nuovo salario?!) sono obbligati a prestare la propria opera in fabbriche in cui le condizioni di lavoro sono disumane, fino a che muoiono per la fatica o si tolgono la vita, come è accaduto alla Foxconn.  

Viviamo nel Ventunesimo secolo e i nostri leader politici fanno un gran vanto della loro fede religiosa e della loro eredità culturale cristiana.

Può sembrare incredibile, ma quanto sinora descritto è anche una diretta conseguenza di un sistema finanziario che non funziona come dovrebbe e che costringe le persone a vivere situazioni terribili. Le concause di questo fenomeno sono il bisogno di realizzare sempre maggiori profitti e l’inadeguato potere d’acquisto che ne deriva. Il potere d’acquisto inadeguato costringe gli imprenditori a tagliare i salari e, alla fine, a esternalizzare la produzione, perché non solo essi non riescono a conseguire i ricavi attesi, ma questi, anzi, diminuiscono. Gli imprenditori attribuiscono la responsabilità di tale fenomeno ai salari troppo alti e adottano le misure di contenimento che paiono loro più opportune al caso. Ma si sbagliano grandemente, perché sono proprio le misure adottate a ridurre progressivamente i loro profitti sul lungo periodo, in quanto la vera causa della contrazione del profitto è il profitto stesso, che, come abbiamo descritto in precedenza, è strutturato in modo tale da far sì che la domanda sia sempre un po’ più bassa dell’offerta.

Se una data produzione richiede una grande quantità di manodopera, ci sono molte probabilità che venga esternalizzata. Sin dall’antichità si evidenzia la consuetudine di sostituire il lavoro remunerato dei liberi cittadini con l’attività di schiavi che costano solo il cibo che consumano. Nella serie televisiva “Roma”, il personaggio di Lucio Voreno si domanda per quale ragione questa situazione dovrebbe cambiare: “Perché i cittadini Romani stanno soffrendo, perché gli schiavi svolgono tutti i lavori presenti sul mercato, perché la classe nobiliare si è impossessata di tutta la terra disponibile e perché le strade sono piene di senzatetto ridotti alla fame.”, risponde un giovane Ottaviano Augusto.
Niente di nuovo sotto il sole, dunque.

Proviamo ad analizzare la situazione dal solo punto di vista del contenimento dei costi: è possibile risolvere il problema della produzione ad alto tasso di manodopera adottando strategie diverse dall’esternalizzazione, pur mantenendo bassi i prezzi?

Se ciò fosse possibile, la pressione generata dall’esternalizzazione cesserebbe di esistere, e le imprese e i politici non sarebbero costretti ad affrontare le difficoltà connesse a questo processo, perché sarebbe possibile conseguire lo stesso ammontare di profitto utilizzando solo forza lavoro interna.

La soluzione a questo problema risiede senza alcun dubbio nel ricorso a forme di sovvenzione nei confronti di determinate produzioni. Tutti sanno quali sono le attività produttive che richiedono un alto fabbisogno di manodopera (settore tessile, elettronico, …): è, quindi, facile erogare una certa quantità di sovvenzioni in proporzione alle necessità esistenti in un dato settore. Bisogna, però, capire dove trovare il denaro che serve per realizzare queste operazioni.

Il metodo classico, quello per cui lo Stato soddisfa le proprie esigenze di finanziamento tramite l’imposizione fiscale, in questo caso non funziona, perché le imprese che non si trovano nella posizione di aver bisogno di tali forme di sussidio sono poco propense a pagare tasse per altri. Inoltre, aumentare la pressione fiscale significa sottrarre denaro al ciclo economico. 
Il finanziamento mediante il debito, invece, non va bene perché non è sostenibile sul lungo periodo e tale considerazione è particolarmente valida per quanto riguarda la specifica contingenza, da noi qui analizzata, di protratta e ripetuta situazione di bisogno. Il debito pubblico che ne deriverebbe, raggiungerebbe, infatti, cifre astronomiche e annienterebbe l’intera economia di un Paese. La soluzione costituita da tasse e debito non è sostenibile sul lungo periodo, per cui si ricorre all’esternalizzazione come unica via percorribile.

In realtà la sola soluzione praticabile è l’adozione di una politica monetaria mirata, da applicarsi in concomitanza con l’introduzione di una tassazione periodica sui profitti accumulati e sui risparmi.

 

E questa soluzione, come funziona?

 

Se lo Stato sostiene una certa parte dei costi standard, il prezzo finale del prodotto è naturalmente inferiore a quello che si avrebbe in assenza di sovvenzioni. Si tratta di un meccanismo semplice ed efficace, adottato da molti Stati, per esempio, nel settore agricolo, con l’obiettivo di abbassare i prezzi al consumo: l’acquirente può, così, spendere il proprio denaro in altri settori produttivi. Se i consumatori, infatti, usano il 50% del loro reddito per acquistare generi alimentari, rimane poco spazio per lo sviluppo di altri ambiti economici.

Quando si adottano le sovvenzioni, però, la quantità di moneta in circolazione è molto elevata. Le classiche sovvenzioni al settore agricolo sono finanziate dalle imposte e il loro ammontare è già stato calcolato nel corso degli anni negli aggregati monetari.
Non è, tuttavia, possibile utilizzare questo strumento su larga scala o per interi settori industriali.

L’adozione di una politica monetaria mirata e la tassazione sui profitti accumulati e sui risparmi costituiscono un nuovo strumento molto flessibile che è possibile adoperare in tutte le circostanze del caso.

 

 

In una prima fase sarà la Banca centrale a fornire allo Stato i mezzi per finanziare le diverse forme di sovvenzione, con una specie di prestito: attribuire a questo meccanismo un carattere di temporaneità è molto importante, per far sì che non ci sia un aumento permanente di massa monetaria in circolazione e per mantenere la sostenibilità del sistema. Durante la fase di rimborso si evidenzierà una contrazione in alcuni ambiti dell’economia, a causa dell’aumento della pressione fiscale necessaria per finanziare la restituzione del prestito.

Lo Stato trasferisce questi finanziamenti alle imprese secondo parametri concordati, proporzionali alla necessità di manodopera per la produzione. Adottando tali misure è possibile raggiungere sia un salario standard, altrimenti non ottenibile, sia prezzi mediamente accettabili. Il fatto che i salari (sostenuti dalle sovvenzioni statali) si siano “normalizzati”, provoca un rinnovato interesse nei confronti delle relative offerte di lavoro, disinnescando così la necessità di esternalizzare le attività produttive. Il fenomeno della disoccupazione da esternalizzazione scompare e non ci sono più cittadini di seconda categoria, non in grado di partecipare alle varie forme di benessere sociale.

I lavoratori, che ora percepiscono salari adeguati, sono nella posizione di poter spendere, e questo fa crescere l’economia. Possiamo facilmente affermare che tali forme di sovvenzione, erogate a determinati comparti industriali, non hanno nessun impatto sulla crescita dell’inflazione. Il fatto che certi ambiti produttivi ricevano sovvenzioni, ha come unica conseguenza che il potere d’acquisto dei lavoratori di questi settori si normalizza. Se compaiono fenomeni inflattivi in quei comparti industriali le cui vendite crescono grazie ai salari “sovvenzionati”, ciò dipende esclusivamente dall’elasticità dell’offerta nei settori che invece non godono di sovvenzioni. Se questi ultimi sono in grado di aumentare la produzione di beni e servizi in misura tale da riuscire a incontrare sia la domanda già esistente, sia quella che sta aumentando in conseguenza ai salari sovvenzionati, naturalmente senza aumentare i relativi prezzi, non ci sarà inflazione.

Mi pare che ciò non debba costituire un problema. L’aumento dei prezzi, se mai si dovesse verificare, fornirebbe importanti informazioni ai settori industriali interessati in merito all’incremento della domanda, ma sono certo che l’offerta saprà adeguarvisi per tempo.
Un altro argomento che può essere utilizzato per alleviare il timore di un aumento dell’inflazione è che le produzioni ora esternalizzate, erano prima comunque gestite con manodopera locale, che riceveva salari normali, e la cui domanda veniva pienamente riflessa nella capacità produttiva dei diversi comparti industriali. Con l’esternalizzazione della produzione, il potere d’acquisto dei lavoratori era naturalmente diminuito e altre imprese avevano di conseguenza sofferto una perdita, a causa di una riduzione delle vendite. La capacità produttiva di queste imprese è, tuttavia, rimasta quasi invariata (è, cioè, possibile rilanciarla in un periodo relativamente breve). Ora che il potere d’acquisto è nuovamente aumentato grazie all’introduzione delle sovvenzioni, e ora che la produzione non è più esternalizzata, possiamo aspettarci una rivalorizzazione rapida e senza inflazione dell’attività di queste industrie.

Ritengo più corretto che ci sia una crescita dei prezzi provocata da un livello dei salari adeguato (il che, come abbiamo visto, genera un aumento della domanda), che avere prezzi (forse?) più bassi, ma al costo della presenza di gruppi di cittadini di seconda classe. Non va dimenticato che le varie forme di sovvenzioni comunicano alle imprese il messaggio che con salari normali si crea una domanda sostanzialmente insoddisfatta.

Si tratta, in realtà, di un problema di natura filosofica:

  • Vogliamo davvero che nelle nostre società ci siano persone che vivono in povertà, nonostante il loro onesto e necessario lavoro?
  • Vogliamo davvero che le nostre società continuino a esistere al prezzo di manodopera schiavizzata in qualche paese lontano da noi?
  • Vogliamo davvero che i salari subiscano costanti diminuzioni e la disoccupazione cresca?

La pressione esercitata sui salari, a causa della ricerca di un profitto che non può essere conseguito senza interventi mirati di politica economica, provoca fenomeni di esternalizzazione interna ed esterna e una conseguente diminuzione del potere d’acquisto dei lavoratori. Questo processo genera una spirale deflattiva, che crea profitti sempre più bassi e ancora esternalizzazione, in un crescendo di cui non si vede la fine.